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RASSEGNA STAMPA

Articoli sul Dolore Cronico da segnalare

 

 

http://www.iodonna.it/benessere/salute-prevenzione/2017/01/29/una-guida-la-verita-sugli-oppiacei/

http://salute24.ilsole24ore.com/tags/1846/articles

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

http://www.corriere.it/salute/13_gennaio_03/sport-dolore-sopportare_6e183dea-234f-11e2-b95f-a326fc4f655c.shtml?refresh_ce-cp

Lo sport aiuta a sopportare il dolore

Gli atleti tollerano di più il dolore rispetto alla gente comune: dipende dal sesso, dalle caratteristiche genetiche e dall'attività

 

Un atleta infortunatoUn atleta infortunato

MILANO - Qualcuno ricorderà Manteo Mitchell, il corridore statunitense che ha continuato e concluso la prima frazione della 4×400 staffetta maschile alle Olimpiadi di Londra 2012, nonostante il perone sinistro gli si fosse fratturato a metà del percorso. Un gruppo di ricercatori tedeschi ha voluto andare a verificare se è vero che gli sportivi sopportano il dolore molto più degli altri e per accertarlo hanno esaminato tutti gli studi che negli anni hanno messo a confronto la resistenza di atleti e gente comune. «Abbiamo individuato 15 ricerche, che in tutto hanno valutato circa 900 persone» racconta Jonas Tesarz, dell’Università di Heidelberg. «Alcuni lavori consideravano la soglia del dolore, altri la durata del tempo di sopportazione, altri entrambi questi fattori».

 

LA SOGLIA DEL DOLORE NON CAMBIA - Per quanto riguarda il livello cui lo stimolo era avvertito come doloroso, il dato non era evidente, e sembrava discordante da uno studio all’altro, ma poi, escludendo i risultati delle indagini che potevano avere qualche vizio di forma, è emerso che la soglia dolorosa non cambia in chi pratica sport. «A essere diversa è la capacità di tollerarlo» prosegue l’esperto. «Per ridurre lo stress gli atleti per esempio spesso usano tecniche cognitive come l’associazione o la dissociazione: si concentrano intensamente su alcuni dettagli del gioco, o viceversa, pensano a qualcosa di bello che li distragga. Quest’ultima strategia è più efficace se l’attività è a ritmi bassi o moderati, la prima quando è più intensa, ma entrambe riescono ad aumentare anche la resistenza al dolore».

NON TUTTI SONO UGUALI - Non tutti gli atleti però sono uguali: diversamente da quel che si potrebbe pensare a uno sguardo superficiale, quelli che si confrontano in un gioco, soprattutto se in uno sport di contatto, sembrano più stoici di quelli impegnati in specialità di resistenza. Forse questo dato dipende dal senso di solidarietà con i compagni, più che dal tipo di attività, come dimostra la spiegazione data da Mitchell all’arrivo, quando la frattura, che anch’egli correndo aveva sospettato, è stata confermata dai medici: «Anche se questo è uno sport individuale, ci sono tre persone che dipendono da te, e il mondo intero che ti guarda. Non vuoi certo deludere nessuno». Potrebbe essere dunque la forza della motivazione che spinge a non mollare la presa quando si insegue un risultato, un record, una medaglia.

ALLENARSI AL DOLORE - Una motivazione forte quanto quella osservata in contesti molto diversi, per esempio in guerra o durante difficili operazioni di salvataggio. Difficile dire se è proprio questa la ragione. Gli stessi autori del lavoro pubblicato su Pain non hanno trovato una spiegazione certa alle loro osservazioni. «Sembra che in alcuni casi la capacità di stringere i denti sia legata alla presenza di determinate varianti genetiche» conclude l’esperto. «Più in generale si sa che l’attività fisica determina la liberazione di endorfine, oppioidi naturali prodotti dall’organismo che potrebbero contribuire ad alleviare la sensazione dolorosa». La capacità di resistere al dolore però, come quella relativa allo sforzo, si può allenare, ed è quello che probabilmente fanno molti atleti. Grazie a questa abilità molti hanno raggiunto il loro obiettivo e sono saliti sul podio. Attenzione però a non esagerare: il dolore è un campanello di allarme con cui l’organismo ci chiede di fermarci, per evitare che una piccola lesione peggiori. Ignorarlo, talvolta, può diventare pericoloso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Roberta Villa

 

http://www.crescita-personale.it/gestire-emozioni/1775/rabbia-psicologia/1560/a

LA RABBIA IN PSICOLOGIA: LA MASCHERA DEL DOLORE

La rabbia è un'emozione che ha origini antiche e la psicologia ne studia le varie manifestazioni. In psicologia la rabbia viene indagata sia nei suoi aspetti manifesti che in quelli più celati e Wilhelm Reich la considerava un'emozione secondaria rispetto alla frustrazione. Vediamo come la psicologia spiega l'origine e le maschere della rabbia. Ma la rabbia, a sua volta, cosa copre?

 


 

La rabbia è un'emozione molto antica e la psicologia da sempre ne indaga le forme e i contenuti. Chi di noi, infatti, non ha mai sentito i propri occhi diventare rosso sangue, i muscoli del viso contrarsi in modo anomalo e visto la propria pelle assumere uno strano colore verdognolo? La trasformazione nell'incredibile Hulk o nell'Orlando Furioso l'abbiamo provata in molti e la rabbia ci appartiene più di quanto possiamo immaginare: anche chi è capace di controllarla o gestirla ha sentito ogni tanto quel canino allungarsi a dismisura, pronto ad azzannare. E che dire, invece, dei sorrisi cronici a denti stretti che sembrano esprimere un'intimidazione piuttosto che benevolenza e affetto? La rabbia ha vari modi di manifestarsi e la psicologia cerca di scoprire le sue varie maschere e i suoi modi d'essere: ma se la rabbia usa mascherarsi, a sua volta è la maschera di qualcos'altro. Di cosa? Rewind: andiamo in ordine.

 

La rabbia in psicologia:  da dove nasce

La scienza, l'antropologia, la psicologia, hanno studiato la rabbia e ne hanno provato l'antica origine: nasce dalla primordiale reazione-azione di attacco e fuga e la sua zona di attivazione si situa nel nostro cervello rettiliano. Secondo Paul Mc Lean, colui che ha elaborato la teoria dei tre cervelli, la rabbia era una modalità che permetteva all'uomo la conservazione della specie e, come tale, non era una reazione negativa ma una reazione conservativa ad una reale minaccia. Quella che noi chiamiamo e trasformiamo in rabbia, quindi, non è il mostro nero dentro di noi, ma nasce dall'aggressività, dove aggressività sta per adgredior, ovvero il modo affrontare la vita.

 

La rabbia in psicologia: come si manifesta

La psicologia ha dimostrato che le espressioni facciali della rabbia sono identiche in tutte le culture: i muscoli facciali si tendono, si tende a mostrare i denti come fanno gli animali quando vogliono intimorire l'avversario, la muscolatura si irrigidisce, la giugulare comincia a pulsare e il viso si fa paonazzo per un aumento della pressione, la voce può raggiungere toni alla Farinelli o alla Crudelia Demòn. Quando compare la rabbia tutto il sistema simpatico viene shakerato e attivato, e fanno capolino anche quelle inquietanti goccioline di sudore che rigano la tempia. Lapsicologia ha studiato e studia ancora le varie tecniche che la rabbia usa per manifestarsi: non pensiamo solo alla rabbia espressa, alla crisi violenta dove piatti e bicchieri diventano cocci indifferenziati sul pavimento e ai gestacci che facciamo quando siamo al volante. La rabbia, spesso, si manifesta in modo più sottile e si cela sotto false spoglie.

 

La rabbia in psicologia: come si maschera

La psicologia ha evidenziato che la cultura ha avuto un effetto inibente sul nostro modo di vivere le emozioni. La cultura, nel suo aspetto coercitivo, ha modellato, smussato e appiattito la nostra sfera emozionale e, dando alla rabbia una connotazione esclusivamente negativa, ne ha inibito le modalità espressive. Il risultato? Che la rabbia ha cominciato un gioco di travestimenti davvero eccezionale. Avete presente i denti che si digrignano per intimorire l'altro? Basta aggiungere un bel sorriso ed il travestimento è fatto. Oppure zampilla sottoforma di buonismo, o ancora si manifesta come impazienza, con la costante irritazione che spesso ci accompagna, con gli atti inconsapevolmente aggressivi che possiamo compiere giornalmente, come mettere casualmente il sale nel caffè al nostro amato, guarda caso subito dopo una litigata. Ma che succede se la rabbia che abbiamo dentro la copriamo e copriamo e copriamo ancora? Succede che quando esplode diventa pericolosa, succede che cominciamo ad averne paura, che cominciamo a temere sia la nostra che quella dell'altro, succede che quando si innesca la miccia, difficilmente si spegne.

 

La rabbia in psicologia: cosa maschera

La psicologia e le varie discipline neuroscientifiche hanno dimostrato che la rabbia nasce comereazione alla frustrazione. Lo stesso Wilhelm Reich diceva che la rabbia è un'emozione secondariarispetto alla frustrazione e la frustrazione, noi sappiamo, nasce dal dolore, nasce dal mancato soddisfacimento di un nostro desiderio, ovvero, nasce da una impossibilità di raggiungere il piacere. La rabbia, quindi, nasce dalla frustrazione ma maschera il dolore. Pensiamoci: quante volte ci sentiamo addolorati per i più disparati motivi e quante volte siamo capaci di far uscire il dolore invece della rabbia? La percentuale è bassa, siamo onesti. Il dolore, nel nostro immaginario, ci rende deboli, la rabbia ci fa apparire forti, minacciosi, invulnerabili. In un contesto sociale che ci chiede questo, la rabbia trova pane per i suoi denti, soffoca il dolore e volià, il gioco è fatto. Siamo sempre tutti incavolati neri. Allora... un motivo c'è!

 

 

Giovedì 9 Aprile 2015

 

La molecola che attiva l’ansia: ecco dove nascono le paure

Ansia e paura hanno lo stesso interruttore nel nostro cervello. La molecola che le attiva è la stessa che portò Rita Levi Montalcini al Nobel

di Mario Pappagallo

 
Ansia e paura hanno lo stesso interruttore al centro del cervello. Lo si cercava, è stato trovato e adesso si può lavorare per vedere come «spegnerlo». Ma solo quando la paura diventa malattia, quando il panico è ingiustificato e paralizza, quando un grave trauma lascia come conseguenza il terrore nel fare qualcosa. Guidare l’auto, entrare in ascensore, uscire di casa, prendere l’aereo... Fobie che innescano modificazioni ormonali e fisiche tali da bloccare una persona, farla star male, attivare meccanismi di difesa ingiustificati. Utili per anticipare i pericoli reali, negativi quando il pericolo è inventato. In questi casi, e solo in questi, l’interruttore va spento o rimesso in equilibrio. Oppure si può studiare come renderlo più raffinato, quasi predittivo di un pericolo: ansia e paura hanno consentito all’umanità bambina di sopravvivere, il meccanismo va preservato. 
Amigdala, la «telecamera di sicurezza»

Il sistema memorizza il pericolo avvertito da tutti e cinque i sensi, lo elabora e innesca le contromosse. Per esempio fa distinguere se quello che sembra un ramo d’albero è un vero ramo o un serpente mimetizzato, se l’auto che sta arrivando rischia di investirti o non rappresenta un pericolo. Questa «telecamera di sicurezza» al centro del cervello si chiama amigdala, il pannello di comando è adiacente e si chiama talamo. Si trovano in un’area della corteccia cerebrale che più si studia più assomiglia alla centrale di comando psico-fisico-emotiva dell’intero organismo. Tutto è connesso e tutto lì, in quell’area, interpreta dati e innesca reazioni. 

 

40 milioni di ansiosi nel mondo

Il circuito nervoso responsabile dei disordini dell’ansia e delle fobie, che nel mondo affliggono 40 milioni di adulti, è stato scoperto da due gruppi indipendenti: uno, guidato da Bo Li, del Cold Spring Harbor Laboratory (Cshl) di New York; l’altro, con a capo Gregory Quirk, dell’università di Porto Rico. Entrambi firmano la pubblicazione su Nature . Individuato nei topi, il circuito svolge un ruolo chiave nell’organizzazione della memoria dei ricordi traumatici. È difficile immaginare, rilevano gli autori, che un’emozione intangibile come la paura sia codificata all’interno di circuiti nervosi. Invece è così: è memorizzata e organizzata in un’area specifica del cervello. «In precedenti ricerche - spiega Li - abbiamo scoperto che l’apprendimento della paura e del relativo ricordo sono gestiti dalle cellule nervose nell’amigdala centrale». E ora il passo successivo. Gli scienziati hanno visto che l’amigdala centrale è governata a sua volta da un gruppo di neuroni che formano il nucleo paraventricolare del talamo (Pvt), una regione del cervello estremamente sensibile alle sollecitazioni e che agisce come un sensore sia alla tensione fisica sia a quella psicologica. 

 

Le Bdnf

Spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano: «Queste due aree sono legate da messaggeri chimici, molecole chiamate Bdnf (Brain-derived neurotrophic factor), note per essere implicate nei disturbi d’ansia». Le Bdnf sono fattori di crescita che svolgono un ruolo importante nello stimolare la nascita di nuovi neuroni e di nuove connessioni tra questi. Secondo Bo Li potrebbero diventare presto il bersaglio di nuovi farmaci per il trattamento dell’ansia e delle fobie. O per modulare ansie e fobie. Le Bdnf parlano italiano: la prima a essere scoperta, negli anni 50, è quel fattore di crescita neuronale (Ngf) che consacrò Rita Levi Montalcini premio Nobel nel 1986. 

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Raccomandazioni FDA per oppiacei con proprietà abuso-deterrenti

La Food and Drug Administration americana ha elaborato un aggiornamento delle raccomandazioni per le aziende produttrici di farmaci oppiacei su come dovrebbero essere condotti e valutati gli studi, per determinare se una data formulazione ha proprietà abuso-deterrenti. Il documento, di 26 pagine, è consultabile online.

Stato confusionale acuto nei pazienti anziani con frattura di femore

Uno studio presentato al Meeting 2015 della American Academy of Orthopedic Surgeons, AAOS (Las Vegas, 25-28 marzo), pone ancora una volta l'accento sulla elevata prevalenza e sulle gravi conseguenze dello stato confusionale acuto nei pazienti anziani ospedalizzati per frattura di femore. I dati presentati ribadiscono a tutti coloro che si occupano di terapia del dolore che una corretta valutazione con strumenti adeguati, unitamente a un tempestivo trattamento del dolore nei pazienti anziani con frattura di femore, può portare notevoli vantaggi di salute per l'anziano fragile, riducendo i tempi di degenza e aumentando le possibilità di un rientro rapido al proprio domicilio. Leggi tutto

 

09 aprile 2015

“Nessun farmaco può competere con la cannabis naturale”, l’intervista al dottor Lester Grinspoon

10/10/2014 14:04

Lester Grinspoon«Quando cominciai a occuparmi della marijuana nel 1967, non dubitavo che si trattasse di una droga molto nociva che, sfortunatamente, veniva usata da un numero sempre maggiore di giovani incoscienti che non ascoltavano o non potevano capire i moniti sulla sua pericolosità. La mia intenzione era di descrivere scientificamente la natura e il grado di questa pericolosità. Nei tre anni successivi, mentre passavo in rassegna la letteratura scientifica, medica e profana, il mio giudizio cominciò a cambiare. Arrivai a capire che anch’io, come molte altre persone in questo paese, ero stato sottoposto a un lavaggio del cervello. Le mie credenze circa la pericolosità della marijuana avevano scarso fondamento empirico. Quando completai quella ricerca mi convinsi che la cannabis fosse considerevolmente meno nociva del tabacco e dell’alcool, le droghe legali di uso più comune».

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Da DOLOREDOC Data: 29/09/2011

Dolore o contatto fisico: trentacinque settimane per imparare la differenza

Dettaglio

Quando iniziamo a comprendere la differenza tra contatto fisico e dolore ? La risposta arriva da un gruppo di ricercatori dell'University College di Londra, il cui studio è stato pubblicato sulla rivista Current Biology . La capacità di distinguere tra uno stimolo doloroso e un semplice contatto si colloca a cavallo fra la 35a e la 37a settimana di gestazione. 

E’ un risultato che può essere molto importante nel trattamento e la cura di neonati prematuri, che spesso mostrano una sensibilità al dolore differente da quelle normale. 

Poiché un neonato non può esprimersi chiaramente con le parole e quindi non può dire esattamente quando una sollecitazione gli porta dolore o no, i ricercatori hanno esaminato le registrazioni elettroencefalografiche della loro attività cerebrale. 

“I bambini prematuri che hanno meno di 35 settimane hanno risposte cerebrali simili di fronte a un'esperienza tattile o dolorosa - spiega Rebeccah Slater, che ha partecipato alla ricerca - successivamente il cervello inizia a elaborare i due tipi di stimoli in modo distinto”. 

Studi recenti hanno sottolineato l’importanza, durante la formazione dei circuiti cerebrali, di caratteristiche “esplosioni” di attività neuronale, spontanea ed evocata, in uno schema che nell’adulto si trasforma nella risposta a degl’input sensoriali. 

L'analisi dell'EEG dei neonati dimostra che il cervello inizia a produrre risposte diversificate fra il semplice tocco e uno stimolo doloroso a un’età compresa tra le 28 e le 45 settimane di gestazione. “La leggera ripetuta stimolazione nocicettiva del tipo usato in questo studio è parte della normale terapia intensiva neonatale - afferma Lorenzo Fabrizi, autore della ricerca - La nostra scoperta, che il tocco della lancetta al tallone aumenta l'attività neuronale esplosiva nel cervello fin dalla più tenera età, solleva la possibilità che l'eccesso di questo tipo di input sensoriali possa turbare la normale formazione dei circuiti corticali, - continua l’esperto - e che questo sia un meccanismo sottostante a conseguenze a lungo termine nello sviluppo neurologico e in particolare all'alterata reazione al dolore nei bambini nati pretermine”. 

Fonti: http://www.cell.com/current-biology/abstract/ http://lescienze.espresso.repubblica.it http://www.edizionioggi.it/cronaca/2011/

Data: 29/09/2011

Titolo: Identificato il gene responsabile del dolore cronico

Dettaglio

La colpa del dolore persistente è di un gene scritto nel nostro codice ovvero HCN2, responsabile del dolore cronico ma non di quello acuto. La scoperta, che apre le porte a nuove e più efficaci terapie antalgiche è frutto del lavoro di un gruppo di ricercatori inglesi dell'Università di Cambridge ed è stato pubblicata sul magazine Science.

La scoperta ha vaste implicazioni in campo medico e potrebbe portare alla sintetizzazione di farmaci in grado di fermare la proteina prodotta dal gene HCN2 e quindi portare notevoli benefici anche nei piccoli dolori della vita quotidiana. 

Gli scienziati inglesi che si sono occupati della ricerca hanno isolato il gene in questione dai nervi deputati alla percezione del dolore nei topi e li hanno stimolati elettricamente per verificare il loro comportamento in assenza dell’HCN2. Inoltre, hanno analizzato alcune cavie geneticamente modificate a cui il suddetto gene era stato del tutto eliminato. Sottoposti a stimoli dolorosi, i ricercatori hanno potuto appurare che in assenza del gene il dolore non si sviluppa. In realtà, il dolore è di due tipi: quello di tipo infiammatorio tipico delle artriti e delle ustioni e che alla fine danneggia le terminazioni nervose. E quello neuropatico che si verifica quando i nervi sono danneggiati. E’ proprio sulla seconda tipologia di dolore persistente che si è concentrata la ricerca, perché tra l’altro è quello più comune, a più lunga durata e più resistente ai farmaci attualmente in circolazione. "Abbiamo indagato su come spegnere il gene HCN2 per bloccare il dolore neuropatico, tipo di dolore cronico che si manifesta quando i nervi che trasmettono gli stimoli dolorosi risultano danneggiati - afferma Peter McNaughton, primo autore dello studio – con il mio team siamo riusciti a inibire il funzionamento del gene in un gruppo di topi, liberandoli dal dolore neuropatico cronico senza però impedire loro di avvertire dolori acuti - meccanismo indispensabile per evitare danni accidentali".

 

Data: 25/07/2011

Titolo:

Terapia del dolore: la chiave del successo è nel DNA

Dettaglio

I nostri geni influenzano la percezione del dolore e, di conseguenza, la risposta ai farmaci che servono per calmarlo. A studiare la correlazione tra Dna e la soglia del dolore sono stati i ricercatori dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, in collaborazione con l’Università Norvegese di Scienze e Tecnologia di Trondheim. 

Quest’analisi genetica, condotta su oltre 1000 pazienti trattati con farmaci, ha messo in luce per la prima volta l’esistenza di varianti relative a geni che controllano la trasmissione del segnale nervoso del dolore. Tra le otto variazioni individuate, importanti sembrano essere quelle che coinvolgono il gene RHBDF2, che ha una funzione ancora sconosciuta, e il gene SPON1, che regola la produzione di una proteina che favorisce l’adesione delle cellule nervose sensoriali e la crescita di neuriti, una sorta di “prolungamenti” dove passa l’impulso nervoso. 

“L'aspetto originale del programma di ricerca – afferma Augusto Caraceni, direttore della Struttura di cure palliative e terapia del dolore dell’Istituto Nazionale dei Tumori - è stato di cercare di affrontare il problema della risposta agli oppioidi combinando la variabilità clinica con quella genetica”.

“Questa ricerca – aggiunge Tommaso Dragani, responsabile della struttura di Basi molecolari del rischio genetico e modelli poligenici dell’Istituto Nazionale dei Tumori - apre la strada a ulteriori studi che aiuteranno a tagliare su misura la terapia del dolore per ogni paziente con neoplasia». 

Lo studio, condotto in collaborazione tra 17 centri ospedalieri di 11 paesi europei e pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Clinical Cancer Research, edita dall’American Association for Cancer Research, è il primo lavoro ad aver analizzato l’intero genoma dell’uomo e non solo alcuni specifici geni. 

Jeffrey Mogil, dell’Università McGill di Montreal (Canada) ha fatto le prime rivelazioni grazie a risonanza magnetica funzionale, registrando quale area del cervello si “eccitava” nell’ istante in cui volontari sani venivano sottoposti a stimoli dolorosi di diverso tipo. La seconda rilevazione è avvenuta invece studiando i topi (il cui genoma differisce solo di un 3% da quello umano). Il tipo di percezione del dolore che ognuno ha dipenderebbe quindi sia dai geni sia da fattori ambientali e psicologici o emotivi. Questi influenzano anche la risposta di alcuni soggetti ai farmaci antidolore. 

 

Data: 07/07/2011

Titolo: Legge 38 del 2010:

Anche il dolore cambia da una Regione all'altra Dettaglio A pochi giorni dall’IMPACT 2011, il summit che ha visto riuniti a Firenze esperti e tecnici sul tema della lotta al dolore, si analizzano i risultati della ricerca “Pain in Europe”, l’indagine più ampia effettuata finora sull’argomento. Emerge che soffre di dolore cronico non oncologico, dovuto cioè a patologie quali osteoporosi, artriti o lombosciatalgie, il 19% degli europei e addirittura il 26% degli italiani (1 su 4), pari a 15 milioni di connazionali, con punte del 40% tra gli over 65 e valori ancora più elevati tra le donne (il 49% delle casalinghe). 

Un problema da non sottovalutare quello del dolore che in Italia, in termini di normativa, ha visto la presenza della legge 38/2010. A 15 mesi dall’entrata in vigore di questa legge, Franco Gensini, presidente del Comitato scientifico Impact 2011 e preside della facoltà di Medicina dell’Università di Firenze propone i nuovi obiettivi a cui aspirare: “In quest’ultimo anno, Società scientifiche, Associazioni e Fondazioni hanno dato vita a un intenso programma di attività formative e informative, rivolte sia ai propri soci sia ai pazienti, con l’obiettivo di dare un impulso reale a quanto previsto dalla legge 38. Uno dei punti di forza della nuova normativa, del resto, è l’aver previsto un modello organizzativo basato sulla gestione multidisciplinare del problema”. 

Dal canto suo Guido Fanelli, coordinatore della Commissione ministeriale Terapia del dolore e cure palliative, ricorda come in Europa l’esperienza italiana sia stata valutata con estremo favore: “Dopo i primi mesi di incertezza, dovuta al carattere così tecnico e innovativo della Legge, le Regioni si stanno adeguando in modo continuo e sistematico; tra queste: Piemonte, Sicilia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio, Lombardia e ora anche il Friuli; stimo che almeno 35 milioni di persone siano ormai sotto delibera regionale". 

La legge 38 del 15 marzo 2010, con le sue disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, è a applicata parzialmente in alcune Regioni, nove hanno presentato progetti specifici per poter usufruire dei finanziamenti previsti dall'articolo 12 della legge.

Per quanto riguarda infine la richiesta di un monitoraggio più stringente della qualità assistenziale, Guido Fanelli, si è detto convinto che: “uno strumento estremamente utile sarà proprio il “cruscotto”, che il ministero ha da poco attivato: uno specifico software per rilevare la tipologia delle prestazioni ospedaliere e monitorare le prescrizioni”.

 

AGI - Lun 16 Apr 2007

(AGI) - Londra, 16 apr . - Un cioccolatino che si scioglie in bocca fa piu' effetto di un bacio languido. E' quanto assicurano i ricercatori che hanno messo a confronto l'attivita' cerebrale e cardiaca che si registra nel corso delle due "esperienze": nemmeno il bacio piu' appassionato puo' competere con il piacere che procura il cioccolato. "Questi risultati ci hanno davvero sorpreso e intrigato - ha detto il dottor David Lewis, lo psicologo che ha coordianto la ricerca. - Avevamo previsto che il cioccolato, specie quello amaro, potesse far aumentare il ritmo cardiaco,dato che contiene sostanze fortemente stimolanti, ma la durata di questo innalzamento e l'intensita' dei suoi effetti sono qualcosa che nessuno di noi aveva previsto". Nel momento in cui il cioccolato comincia a sciogliersi in bocca, secondo lo studio, il cervello viene stimolato con una intensita' molto superiore a quella indotta dall'eccitazione del bacio, e per un tempo quattro volte piu' lungo. Il cioccolato e' pure un acceleratore del battito cardiaco: le pulsazioni possono passare dalle 60 a riposo alle 140 che seguono la sua assunzione. Anche un bacio fa letteralmente battere il cuore, ma, a quanto pare, molto meno. -